Introduzione
L’esortazione apostolica Amoris laetitia (AL, datata 19 marzo 2016, ma pubblicata l’8 aprile), in cui papa Francesco recepisce e restituisce con la sua prospettiva alla Chiesa il frutto dei due Sinodi sulla famiglia (ottobre 2014 e ottobre 2015), ha lasciato molti spiazzati, stando almeno alle prime reazioni e soprattutto rispetto alla polarizzazione delle attese su alcuni nodi.
Comunione ai divorziati risposati? Sì, in alcuni casi; ma stando attenti che «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» (n. 304). Fedeltà alla tradizione? Indubbiamente; basta leggere il n. 292: «Il matrimonio cristiano, riflesso dell’unione tra Cristo e la sua Chiesa, si realizza pienamente nell’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita, consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società». Che poi però prosegue: «Altre forme di unione contraddicono radicalmente questo ideale, mentre alcune lo realizzano almeno in modo parziale e analogo [… e] la Chiesa non manca di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio». Le esigenze del Vangelo sono annacquate? Per niente: «Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cfr Familiaris consortio, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa» (n. 300). A condizione di non annacquare le esigenze altrettanto cogenti della misericordia: «Poniamo tante condizioni alla misericordia che la svuotiamo di senso concreto e di significato reale, e questo è il modo peggiore di annacquare il Vangelo. È vero, per esempio, che la misericordia non esclude la giustizia e la verità, ma anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio» (n. 311).
Dunque, come è stato detto, il Papa “tiene il piede in due scarpe” per non scontentare nessuno? O piuttosto questo sconcerto ci segnala che occorre un diverso approccio al testo, per poterlo davvero comprendere? Lo ha sottolineato anche papa Francesco, sull’aereo al ritorno da Lesbo (16 aprile), manifestando il proprio disappunto per il continuo riemergere di domande a suo avviso marginali: «Quando convocai il primo Sinodo, la grande preoccupazione della maggioranza dei media era: Potranno fare la comunione i divorziati risposati? E siccome io non sono santo, questo mi ha dato un po’ di fastidio, e anche un po’ di tristezza. Perché io penso: Ma quel mezzo che dice questo, questo, questo, non si accorge che quello non è il problema importante? Non si accorge che la famiglia, in tutto il mondo, è in crisi? E la famiglia è la base della società! Non si accorge che i giovani non vogliono sposarsi? Non si accorge che il calo di natalità in Europa fa piangere? Non si accorge che la mancanza di lavoro e che le possibilità di lavoro fanno sì che il papà e la mamma prendano due lavori e i bambini crescano da soli e non imparino a crescere in dialogo con il papà e la mamma? Questi sono i grandi problemi!».
Il Papa non intende certo mostrare indifferenza verso tanti credenti che vivono una determinata situazione anche con profonda sofferenza: l’esortazione apostolica dimostra proprio il contrario. Quello che lo innervosisce è l’ossessione per la norma, che riduce il Vangelo a un farisaico “si può o non si può”, che ne contraddice il senso. È questo l’approccio interpretativo a cui la AL non si lascia piegare. Rimandando a futuri contributi, già in preparazione, l’approfondimento più sistematico dell’esortazione apostolica, in queste pagine proveremo a concentrarci proprio sulle chiavi di interpretazione che permettono di accedere al suo messaggio. Si tratta di entrare in consonanza con l’intenzione che anima l’autore: lo faremo ricorrendo ad alcuni elementi del suo magistero, presenti anche in altri testi, con una attenzione particolare al tema del discernimento; è un punto centrale della AL, estremamente delicato. Senza una chiarezza a riguardo, la probabilità di malintesi è assai elevata.
Il progetto della Amoris laetitia
A differenza della Laudato si’, con cui papa Francesco si proponeva «di entrare in dialogo con tutti» (LS, n. 3), la AL si rivolge espressamente ai membri della Chiesa, facendo perno sulla loro qualità di credenti. Dunque è scritta per persone che hanno sperimentato o almeno intuito, magari confusamente, che «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (Evangelii gaudium, n. 1), e che hanno deciso o almeno desiderano orientare la propria esistenza in questa direzione. Papa Francesco accoglie questo orientamento e lo valorizza, nella consapevolezza che deve comunque misurarsi con la infinita varietà delle situazioni concrete in cui i credenti vivono. È questa la base su cui la AL risulta comprensibile. Non lo è invece per quanti la leggono a prescindere dall’esperienza della fede, nutrendo verso il cristianesimo un interesse in qualche modo etnografico per qualcosa che non li coinvolge personalmente. Lo stesso vale per quanti hanno già deciso di orientarsi in una diversa direzione e cercano un accomodamento più o meno di facciata, che non li obblighi a rimettere in discussione le proprie scelte, o per quanti sentono che il Vangelo non è buona notizia, ma un fardello pesante o una tassa da pagare, tra mille recriminazioni e un po’ di invidia verso chi quella tassa sembra riuscire a evaderla o eluderla.
La AL è dunque un testo esigente, che sfida chi è disposto a prenderlo sul serio e provoca gli operatori pastorali a presentare, nelle situazioni concrete, quella che il teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) chiamava «la grazia a caro prezzo». Tutt’altro che una facile resa allo spirito dei tempi, ma con la pazienza del vignaiolo che non abbandona il fico sterile al proprio destino, né pretende che cominci da solo a portare frutto, ma accetta di continuare a prendersene cura (cfr Luca 13,6-9). È ancora la prospettiva della Evangelii gaudium: «L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari. L’azione pastorale deve mostrare ancora meglio che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali» (EG, n. 67).
Con la Laudato si’ la AL condivide invece l’intenzione profonda della cura. Là si rivolgeva verso la “casa comune”, qui si indirizza alle famiglie: «Spero che ognuno, attraverso la lettura, si senta chiamato a prendersi cura con amore della vita delle famiglie» (n. 7). Cura e accompagnamento, integrare e non abbandonare, escludere o lasciare soli: tali espressioni, che continuamente ritornano, esprimono questa preoccupazione di papa Francesco. Per questo tutte le situazioni familiari trovano spazio nelle pagine dell’esortazione: quelle felici e quelle di difficoltà; quelle di successo e quelle di crisi o di fallimento; quella delle coppie sposate e quelle di coloro che scelgono o sono costretti da vincoli e condizionamenti a convivere; quella delle coppie giovani, quella dei genitori alle prese con l’educazione dei figli, quella dei coniugi anziani chiamati a scoprire come invecchiare insieme continuando ad amarsi, fino a quella delle famiglie colpite dal dolore e dal lutto. Sono famiglie, al plurale, con tutta la concreta e talvolta problematica varietà di forme e situazioni che esibiscono, non al singolare di un modello stereotipato e omogeneizzante. Del resto nei confronti della realtà delle famiglie anche la Chiesa è lontana da avere una prospettiva omogenea. È la lezione che papa Francesco ha tratto dal percorso dei Sinodi: «L’insieme degli interventi dei Padri, che ho ascoltato con costante attenzione, mi è parso un prezioso poliedro, costituito da molte legittime preoccupazioni e da domande oneste e sincere» (n. 4).
La sollecitudine della cura e l’attenzione alla concretezza spingono infine la AL a non astrarre le famiglie dal contesto in cui vivono, focalizzandosi solo sulle dinamiche relazionali e affettive, e al limite spirituali. Tutto il cap. II è dedicato all’esame del contesto sociale e culturale e delle fragilità che ne derivano. Un’autentica pastorale familiare non può ignorare queste sfide: lavoro, disoccupazione e povertà; migrazioni, mancanza di case e degrado ambientale; abusi sessuali, dipendenze e violenze familiari; calo demografico e fatica ad accogliere i membri della famiglia bisognosi di cura (figli piccoli, persone con disabilità e anziani); una cultura individualista ossessionata dal tempo libero o da una mentalità calcolatrice. La cura delle famiglie non è un affare privato, ma ha precisi risvolti politici e sociali, e altrettanto chiare sono le responsabilità delle istituzioni (cfr n. 43). Del resto, «Nessuno può pensare che indebolire la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio sia qualcosa che giova alla società» (n. 52).
Approfondire l’amore
In che cosa consiste la cura per la famiglia? Fondamentalmente nell’accompagnarla a crescere verso quello che già è: il luogo dove si impara l’amore che non ha misure e che deve continuare a essere totale in tutte le fasi della vita, in forma proporzionata a ciascuna di esse. E ancora, il luogo dove questo amore è chiamato a trascendersi e portare frutti, aprendosi alla generazione della vita e alla fecondità della formazione di persone mature, in grado di assumersi impegni nella società e di costruire a loro volta relazioni profonde.
Questo richiede certamente di affrontare ostacoli. In primo luogo le «crisi comuni che accadono solitamente in tutti i matrimoni» (n. 235), legate ai passaggi della vita familiare: i momenti iniziali, la nascita dei figli, la loro adolescenza e il loro diventare adulti, il tempo dell’invecchiamento. «A queste si sommano le crisi personali che incidono sulla coppia, legate alle difficoltà economiche, di lavoro, affettive, sociali, spirituali. E si aggiungono circostanze inaspettate che possono alterare la vita familiare e che esigono un cammino di perdono e riconciliazione» (n. 236). L’amore è anche e soprattutto un processo di crescita continua, non uno stadio che si raggiunge una volta per tutte, certificato dall’aver superato un esame ed essersi iscritti all’albo delle famiglie.
Ci troviamo di fronte a una dinamica che mette in gioco la libertà delle persone. Non può rimanere affidata allo slancio di una spontaneità ingenua quanto precaria, ma nemmeno essere indirizzata su un binario predeterminato: in entrambi i casi si contraddirebbe il senso profondo della libertà. Secondo la AL lo strumento per procedere in questo cammino senza perdere la rotta è il discernimento, che «è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno» (n. 303). Ovunque è in gioco la libertà, si apre lo spazio del discernimento, anche nel rapporto con Dio: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano» (n. 304).
Ma appunto, di che cosa si tratta quando si parla di discernimento? È un termine chiave per la comprensione dell’esortazione e più in generale del modo di procedere che papa Francesco adotta e propone alla Chiesa. A giudicare dalle reazioni a caldo, è anche uno dei termini più fraintesi, probabilmente perché meno conosciuto.
Il dono del discernimento
Vale dunque la pena provare a mettere a fuoco il significato di questo termine chiave. Francesco non lo usa nell’accezione ordinaria di “buon senso”, “capacità di giudizio assennato”, affine alla virtù classica della prudenza, ma nel senso tecnico più specifico, proprio ad esempio della spiritualità: il discernimento è la capacità di esercitare la propria libertà nel prendere decisioni, in particolare quelle che riguardano l’identificazione dei mezzi per raggiungere il fine che ci si è proposti.
Il discernimento presuppone dunque chiarezza in ordine al fine, che per il credente è compiere la volontà di Dio, e incertezza in ordine al mezzo. È lo strumento per dare risposta alla domanda, talvolta angosciosa, talvolta formulata a stento, su che cosa fare per vivere la buona notizia del Vangelo. La AL si rivolge a coloro che si pongono in questo orizzonte: per loro risulterà al tempo stesso sfidante e liberante. Per il credente la pratica del discernimento si nutre della familiarità con il Vangelo e il modo di fare del Signore, attraverso la preghiera, con un orientamento pratico: richiede imprescindibilmente il passaggio all’azione, “uscendo” dai propri pensieri e assumendo il rischio di compiere dei passi. La prova della realtà aiuterà a capire la bontà della decisione presa ed eventualmente aggiustarla.
Nella sua concretezza, il discernimento è radicato anche in un’altra esperienza, senza la quale risulta incomprensibile: sentirsi spinti o attirati in direzioni diverse, sperimentare l’incertezza tra alternative che suscitano una varietà di «desideri, sentimenti, emozioni» (n. 143). Provarli «non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso» (n. 145): la sfida del discernimento è muoversi attraverso queste passioni, utilizzandole come strumento per identificare non quello che è sufficientemente buono (l’aurea mediocritas), ma quello che è meglio. I nn. 143-146 della AL sono estremamente suggestivi per la lettura del mondo delle emozioni all’interno della vita familiare. Questa è ricca di situazioni in cui applicare il discernimento, dalla scelta dello stile di vita e delle modalità di educazione dei figli, fino alle decisioni sul modo di vivere la sessualità e l’esercizio della paternità responsabile, che «non è “procreazione illimitata o mancanza di consapevolezza circa il significato di allevare figli, ma piuttosto la possibilità data alle coppie di utilizzare la loro inviolabile libertà saggiamente e responsabilmente, tenendo presente le realtà sociali e demografiche così come la propria situazione e i legittimi desideri”» (n. 167, con riferimento al magistero di Giovanni Paolo II).
Scopriamo così un altro presupposto del discernimento: la libertà non si esercita in un astratto iperuranio, ma in circostanze concrete, che pongono vincoli e condizionamenti di cui essere consapevoli. Per questo «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» (n. 304). Le norme mantengono inalterato il loro valore e rappresentano l’orizzonte al cui interno il discernimento si compie, completandole e specificandole nella situazione concreta, poiché «nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari» (ivi). Correttamente intesi, discernimento e norma rimandano sempre l’uno all’altra.
Il discernimento non è dunque un sistema per trovare giustificazioni, pretesti o escamotage per depotenziare le esigenze della norma che indica il bene. La parola può certo essere utilizzata per coprire questo tentativo, ma questo ne rappresenta una perversione. Anzi, il discernimento si rivela persino più esigente della norma, perché richiede di passare dalla logica legalistica del minimo indispensabile a quella del massimo possibile, nella consapevolezza del proprio limite e della possibilità di spostarlo ogni giorno un poco più avanti, senza accontentarsi di una misura soddisfacente o tarare il proprio obiettivo sulle potenzialità della media: il discernimento punta a valorizzare al meglio le possibilità di ciascuno.
Il motore del discernimento
Iniziamo così a intravedere il rapporto tra la pratica del discernimento e la gioia del Vangelo che a papa Francesco sta tanto a cuore. Una società che confonde la festa con lo sballo e una mentalità secondo cui scansare la fatica è il massimo dell’umana realizzazione non possono che avere problemi a comprendere questo punto. La gioia del Vangelo che papa Francesco propone alla Chiesa e ai credenti come criterio di discernimento non è la spensieratezza dell’adolescente che passa il pomeriggio attaccato a un videogioco perché un compagno gli ha passato i compiti evitandogli la fatica di farli. È invece quel senso di pienezza e realizzazione che viene dalla consapevolezza di aver dato tutto, di aver eseguito un brano musicale al massimo delle proprie possibilità, anche se questo ha comportato anni di fatiche per continuare a esercitarsi. È questa gioia che permette alla libertà di rinunciare a ciò che è meno importante per raggiungere ciò che conta di più. È l’esperienza, autenticamente evangelica, del «mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Matteo 13,45-46). Chi non conosce questa libertà che è al tempo stesso rinuncia e pienezza faticherà a comprendere la AL; ma d’altra parte è difficile che la vita familiare non contenga almeno qualche traccia di questa esperienza, che sarà compito della pastorale aiutare a far emergere e a maturare.
Tutto questo processo di discernimento nella chiave della gioia è un altro modo di affermare la centralità della coscienza: non è una voce castratrice, come facevano credere i maestri del sospetto, ma il luogo in cui, come ricorda il n. 222, risuona la voce di Dio. Questo rende ragione dell’insistenza sulla bellezza della proposta di un cammino di amore, di matrimonio e di famiglia che si radica in una prospettiva di fede, ma che al tempo stesso si rivela profondamente umanizzante. È questa la chiave che «apre la porta a una pastorale positiva, accogliente, che rende possibile un approfondimento graduale delle esigenze del Vangelo».
La guida del discernimento non può così che essere l’«amore misericordioso» (n. 312) e la coscienza delle persone è innanzi tutto il luogo appropriato in cui esso si svolge, a cui «stentiamo a dare spazio» (n. 37) e che invece «dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa» (n. 303): i fedeli «tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi» (n. 37). Nella prospettiva che abbiamo delineato il ruolo della coscienza non può limitarsi al riconoscimento di essere nell’errore o nel peccato: essa può anche «scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (n. 303).
«Camminiamo!»
La “scommessa” di papa Francesco è che questo cammino di discernimento, personale ed ecclesiale, saprà produrre le risorse con cui «continuare ad approfondire con libertà alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali» (n. 2). Sarà la pratica a cambiare la teoria e soprattutto a scoprire il modo adeguato di formularla e presentarla: «non si deve gettare sopra due persone limitate il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, perché il matrimonio come segno implica “un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio”» (n. 122).
Proprio come la Laudato si’ al n. 244, anche la AL si conclude con un invito a mettersi in cammino. È rivolto alla Chiesa, alle singole comunità cristiane, a tutte le famiglie e a tutti i credenti, in qualunque situazione di vita si trovino. È la vocazione originaria di Abramo e Sara, che trasformò la loro storia di coppia, ormai per molti versi al capolinea, in benedizione per tutte le famiglie e le generazioni, non senza una serie di svolte e giravolte e una certa dose di ambiguità e contraddizioni. Come loro, lungo questo cammino anche noi siamo sostenuti dalla certezza che «Quello che ci viene promesso è sempre di più» (n. 325). La tensione verso il compimento escatologico di questa promessa apre lo spazio dei percorsi di crescita e di sviluppo della nostra umanità e delle nostre famiglie e al tempo stesso rende magnanimo il nostro sguardo. Difficile trovare parole per dirlo migliori di quelle usate da papa Francesco, ancora al n. 325: «contemplare la pienezza che non abbiamo ancora raggiunto ci permette anche di relativizzare il cammino storico che stiamo facendo come famiglie, per smettere di pretendere dalle relazioni interpersonali una perfezione, una purezza di intenzioni e una coerenza che potremo trovare solo nel Regno definitivo. Inoltre ci impedisce di giudicare con durezza coloro che vivono in condizioni di grande fragilità. Tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti, e ogni famiglia deve vivere in questo stimolo costante. Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare!».
Giacomo COSTA SJ
pubblicato in Aggiornamenti Sociali, n. 5-maggio 2016, pp. 357-364.